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La rivolta si espande anche in Libia: tra la notte e stamattina a Bengasi ci sono stati due morti e almeno 38 feriti tra i manifestanti, colpiti da proiettili veri che la polizia usava per disperdere la folla. Gli scontri sono nati per la compresenza di protestatori anti-governativi e sostenitori del colonnello Muammar Gheddafi, che avevano l’appoggio della polizia.
Nella notte la folla era scesa in piazza per chiedere il rilascio di Fethi Tarbel, un avvocato per i diritti umani; al loro lancio di pietre la polizia ha risposto con gas lacrimogeni, idranti e proiettili di gomma. A organizzare la protesta sono state le famiglie delle 14 vittime della rivolta del Bengasi che avvenne nel 1996, quando si verificò una sparatoria nella prigione di Abu Slim a Tripoli: allora furono uccisi almeno 1.200 prigionieri dalle forze dell’ordine. Da anni le famiglie chiedono giustizia. Nel 2006, poi, nacque una protesta in opposizione alle vignette satiriche su Maometto pubblicate in Danimarca, che degenerò nell’assalto al consolato italiano (il Ministro leghista Roberto Calderoli in quell’occasione aveva indossato una maglietta che rappresentava una delle vignette rimproverate) e in una sommossa generale contro Gheddafi.
Domani 17 febbraio è il quinto anniversario della rivolta del 2006, e su internet è già stato organizzato il “giorno della rabbia”, sulla scia delle giornate di protesta già nate nei vicini Egitto e Tunisia. Sono presto nate anche “spontanee” manifestazioni pro Gheddafi, a Bengasi ma anche Tripoli, Sirte e Sebha. Il governo tenta di arginare la rivolta annunciando il rilascio di 110 attivisti di un movimento islamico fuorilegge: il Gruppo Combattente Islamico Libico, che l’anno scorso aveva affermato di rinunciare alla violenza.
Il quotidiano Quryna, ritenuto leale al regime libico, accusa alcuni oppositori libici in esilio di fomentare le violenze attraverso il canale satellitare americano al-Hurra, che trasmette in lingua araba. Inoltre, il giornale nega l’uso dei lacrimogeni da parte della polizia e spiega che “un piccolo gruppo di giovani attivisti si è scontrato con alcune persone che tentavano di portare scompiglio in città manifestando in piazza ‘al-Shajra’, innalzando cartelli contro il regime del popolo”.
Intanto il principe Idris al-Senussi, nipote dell’ultimo re libico deposto nel 1969 da Gheddafi, annuncia: “Sono pronto a tornare in patria al momento giusto una volta che sarà avviato il cambiamento” e si augura che il colonnello “si comporti con intelligenza e avvii lui stesso il cambiamento, cominci subito ad attuare le riforme, eviti lo spargimento di sangue … La Libia è un Paese ricco, che paradossalmente si confronta con una povertà estrema; ci sono disoccupazione e corruzione dilaganti, una sanità allo sfascio. Gheddafi, che senza dubbio è un leader intelligente, deve rendersi conto che questa situazione non può durare a lungo, che anche se riuscirà a reprimere la manifestazione del 17, ne seguiranno altre e altre ancora … in Libia non c’è una costituzione, non si sa cosa ci sarà dopo Gheddafi, chi prenderà il suo posto, in base a quali regole sarà gestito il passaggio dei poteri … La gente non manifesta necessariamente perché Gheddafi vada via, ma vuole regole chiare e vuole un cambiamento e vuole anche sapere che fine fanno gli introiti del petrolio, chiede che siano distribuiti tra tutta la popolazione, che non vadano solo una cerchia ristretta”. Infine, ciò che Idris teme maggiormente non sono i militari, “che sicuramente faranno come al Cairo, dove hanno difeso la gente, non l’hanno attaccata, quanto piuttosto certe milizie violente, alcune collegate ai figli di Gheddafi”.
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